Come noto, in materia di sorveglianza sanitaria il Testo Unico prevede che “il medico competente, sulla base delle risultanze delle visite mediche di cui al comma 2, esprime uno dei seguenti giudizi relativi alla mansione specifica:
a) idoneità;
b) idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni;
c) inidoneità temporanea;
d) inidoneità permanente” (art.41 c.6 D.Lgs.81/08)
Dal canto suo, ai sensi dell’art.42 del D.Lgs.81/08 “il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n.68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente […]”.
Inoltre il datore di lavoro e i dirigenti hanno l’obbligo penalmente sanzionato di “vigilare affinché i lavoratori per i quali vige l’obbligo di sorveglianza sanitaria non siano adibiti alla mansione lavorativa specifica senza il prescritto giudizio di idoneità” (art.18 c.1 lett.bb) D.Lgs.81/08).
Secondo la Suprema Corte, “la ratio sottesa all’art.41 del predetto decreto legislativo è quella di prevenire qualunque forma morbosa provocata dal lavoro ed è mirata alla formulazione di un giudizio di idoneità alle mansioni specifiche che tenga conto di tutte le caratteristiche psico-fisiche del lavoratore confrontate con il peculiare contesto ambientale” ( Cassazione Penale, Sez.III, 22 dicembre 2023 n.51293).
E, con particolare riferimento ai giudizi di idoneità con prescrizioni, la Cassazione ha sottolineato che “le prescrizioni mediche sullo svolgimento della prestazione lavorativa, sono rivolte a rendere compatibile la condizione soggettiva del lavoratore con le esigenze produttive del datore di lavoro, al fine di consentire al primo di intraprendere e proseguire l’attività lavorativa, nonostante le deteriorate condizioni di salute, ed al secondo di limitare le modifiche dell’organizzazione del lavoro alle prescrizioni imposte, in modo da assicurare il diritto alla salute del lavoratore, ma anche l’utilità della prestazione lavorativa” ( Cassazione Penale, Sez.IV, 9 luglio 2021 n.26151).
Proprio affinché le prescrizioni del Medico Competente raggiungano la finalità espressa da questi principi giurisprudenziali – ovvero quella di rendere compatibili la tutela del diritto alla salute con “l’utilità della prestazione lavorativa” – va ricordato che essi devono poter essere realmente attuabili da parte di chi organizza l’attività lavorativa (datore di lavoro e dirigenti), appartenendo i giudizi di idoneità con prescrizioni, pur subordinatamente all’attuazione delle prescrizioni, alla categoria delle “idoneità” e non potendosi dunque risolvere all’atto pratico in sostanziali inidoneità sul piano fattuale.
Detto in maniera semplice, è illegittima la pratica – nella quale talora capita ancora di imbattersi qua e là – di mascherare delle palesi sostanziali inidoneità con delle idoneità con prescrizioni concretamente inattuabili, le quali rendono quindi poi praticamente impossibile al datore di lavoro o al dirigente adibire il lavoratore alla mansione lavorativa.
Ciò perché il parametro di riferimento nei giudizi del Medico Competente è la specifica “mansione lavorativa” e, come ricordato (sopra) dalla Cassazione, i giudizi di idoneità devono tenere conto “di tutte le caratteristiche psico-fisiche del lavoratore confrontate con il peculiare contesto ambientale”.
Ciò premesso, una volta formulate le prescrizioni da parte del Medico Competente e avvenuto il passaggio del testimone tra il professionista sanitario e la line aziendale, il datore di lavoro e i dirigenti, che hanno in mano l’organizzazione dell’attività lavorativa, devono fare la loro parte garantendo la piena e costante attuazione di tali prescrizioni.
Con una sentenza di tre anni fa ( Cassazione Penale, Sez.IV, 9 luglio 2021 n.26151), la Suprema Corte ha tracciato con dovizia di dettagli il perimetro dell’obbligo del datore di lavoro e dei dirigenti di tutelare la salute del lavoratore a fronte dell’emissione di un giudizio di idoneità con prescrizioni da parte del Medico Competente, affrontando così anche il tema delle criticità organizzative legate all’attuazione di tale giudizio.
La Corte ha escluso la responsabilità penale di tre soggetti, nelle loro qualità di “dirigente della P. Italia s.p.a., preposto e preposto diretto dello stabilimento aziendale”, cui era stato contestato di aver causato la morte del lavoratore D.DF. “affetto da epilessia e garantito da prescrizioni medico aziendali che non consentivano, fra l’altro, il lavoro in ambiente confinato”.
Secondo la parte civile – che ha ricorso in Cassazione avverso la loro assoluzione – i tre imputati erano da considerarsi responsabili in quanto avevano consentito “l’utilizzazione da parte dei dipendenti di un’area di produzione dismessa, quale zona franca per fumare, in pessime condizioni igieniche e microclimatiche, caratterizzata da alte temperature, senza informare i diretti superiori”, permettendo così che la vittima “vi accedesse, ed ivi colto da crisi, probabilmente favorita dall’alta temperatura, fosse ritrovato solo dopo due ore, in stato di coma, decedendo dopo nove giorni”.
Il lavoratore era “destinatario in quanto affetto da epilessie, pur ritenuto abile al lavoro ed alle mansioni, di prescrizioni inerenti al divieto di lavoro notturno, al divieto di lavoro in ambienti confinati o in solitario, al divieto di lavoro in quota o su carrelli”.
Tuttavia il giorno dell’evento “intorno alle ore 8 si allontanava dalla sua postazione” e “intorno alle ore 9.00, il collega A.F., non vedendolo tornare cominciava a cercarlo, verificando anche che egli non si fosse introdotto nel box della vecchia linea di produzione, ma avendo ritrovato la porta chiusa con un lucchetto, ed avendo visto che all’interno era tutto buio, si metteva a cercarlo altrove.”
Poi, una volta “allertati, altri dipendenti cominciavano le ricerche, che si concludevano dopo un’ora, quando D.DF. veniva rinvenuto, in stato di coma, all’interno dell’area dismessa ‘ex area applicazione film antilacerante’, e precisamente in un locale cui si accedeva da una porta del box ove il collega A.F. lo aveva cercato un’ora prima, chiusa con un lucchetto, che, tuttavia, presentava un pannello inferiore manomesso.”
Gli imputati sono stati assolti dal Tribunale e dalla Corte d’Appello. Come già anticipato, anche la Cassazione si è posta sulla stessa linea.
Secondo la Suprema Corte, la questione posta dal ricorso riguarda due profili: “l’uno riguardante gli obblighi del datore di lavoro, a fronte della conoscenza di un problema grave di salute del lavoratore e del contenuto delle prescrizioni del medico del lavoro” e “l’altro inerente all’asserito obbligo [asserito dalla parte civile ricorrente, n.d.r.] di coinvolgere altri lavoratori nella sorveglianza delle condizioni di salute di un dipendente, anche tenendo conto della normativa in ordine alla privatezza dei dati sensibili.
Nel caso trattato dalla sentenza, “la prescrizione del medico del lavoro – che pure ha dichiarato idoneo il lavoratore allo svolgimento delle mansioni affidategli comprendeva disposizioni non solo sul tipo di prestazione (divieto di lavoro in quota o su carrelli), ma sulla conformazione dei locali nei quali detta attività doveva essere prestata, essendo stata formulata la prescrizione di non adibire il lavoratore ad attività in ‘ambiente confinato’, e sulla modalità, essendo previsto che egli non svolgesse lavori ‘in solitario’.”
A questo punto la Corte ha sottolineato un aspetto che deve essere sempre tenuto in considerazione: le eventuali “iniziative che oltrepassino le prescrizioni imposte dal medico del lavoro costituiscono per il datore di lavoro l’assunzione di fatto di un rischio, generatore di responsabilità, laddove esse si rivelino dannose per la salute fisica o psichica del lavoratore.”
E “dunque, non può ritenersi imposto al datore di lavoro alcun altro obbligo se non quelli prescritti, né è possibile ipotizzare alcuna estensione applicativa dei medesimi, se non a costo di far assumere al datore di lavoro responsabilità ulteriori non rientranti fra quelle espressamente previste.”
La Cassazione passa così a trattare “il secondo aspetto, relativo alla possibilità, per il datore di lavoro, di esigere da altri lavoratori di assicurare la sorveglianza sul lavoratore affetto da patologie, che quando si manifestino impongano un pronto intervento.”
Secondo la Corte, “la predisposizione di una simile organizzazione lavorativa richiede, in primo luogo, che terzi soggetti, i colleghi di lavoro appunto, siano messi a parte […] delle informazioni sullo stato di salute del lavoratore. Ciò, nondimeno, implica, ai sensi dell’art.26 del c.d. Codice della Privacy, che l’interessato esprima per iscritto il suo consenso alla diffusione dei dati sanitari”.
Da ciò consegue che “del tutto fuorviante, dunque, è l’assunto della parte civile, secondo il quale il datore di lavoro avrebbe dovuto informare i colleghi che operavano con D.DF., affinché lo sorvegliassero adeguatamente, e pretendere da loro siffatto costante controllo.”
Infatti qui – a parere della Suprema Corte – “si ritorna alle prescrizioni impartite dal medico al datore di lavoro sulla conformazione dell’attività del lavoratore alla sua patologia”, dal momento che “la disposizione relativa all’ambiente ‘non confinato’ ed alla modalità non ‘in solitario’, sono rivolte – proprio tenendo conto della non esigibilità della sorveglianza continuativa del lavoratore da parte dei colleghi ed al divieto di rendere nota la patologia senza il consenso dell’interessato – a porre il lavoratore in una condizione di ‘visibilità’ da parte dei terzi, essendo ovvio che allorquando un collega di lavoro si sente male e perde i sensi, come accade nelle crisi epilettiche del tipo descritto, è immediato l’allarme di coloro che lavorano nelle vicinanze.”
La Cassazione ha quindi escluso la responsabilità degli imputati, che si erano attenuti alle prescrizioni del Medico Competente dando loro attuazione, ritenendo che “questa prescrizione imposta al datore di lavoro è, dunque, quella di apprestare una postazione lavorativa che consente di ‘favorire’ il soccorso, non certo quella di ‘sorvegliare continuativamente’ l’interessato, ponendogli accanto un ‘lavoratore sentinella’, che lo segua ovunque egli ritenga di recarsi, nel corso della giornata lavorativa.”
La giurisprudenza dà però anche conto di numerosi casi nei quali le prescrizioni del Medico Competente sono state ignorate dal datore di lavoro, con gravissime conseguenze per i soggetti fragili.
Ne ho selezionate qui due che presentano caratteristiche molto simili, laddove in questo caso la ridondanza nella scelta dell’oggetto delle pronunce è voluta e non casuale.
L’anno scorso, con Cassazione Penale, Sez. IV, 17 gennaio 2023 n.1404, la Corte ha confermato la condanna di un datore di lavoro per aver causato la morte del lavoratore C.R. “il quale, intento ad effettuare una lavorazione in quota, precipitava dalla scala sulla quale era salito in conseguenza dell’urto proveniente da un camion deputato allo scarico di materiale nell’area di cantiere.”
Tra i vari profili colposi addebitati al datore di lavoro, condannato per omicidio colposo, vi era il fatto che “il dipendente, a causa delle sue condizioni fisiche, essendo affetto da diabete, non poteva essere adibito a lavorazioni in quota (“La dott.ssa S.M. aveva espressamente prescritto all’operaio C.R. il divieto di lavori in altezza perché affetto da diabete, con una valutazione glicemica di 130 milligrammi per litro, e di conseguenza a rischio di un calo glicemico di una iperglicemia che può essere causa di perdita di equilibrio e caduta a terra”).”
Come già detto, la dinamica dell’evento descritta da questa sentenza non è purtroppo un caso isolato.
Solo a titolo di esempio, qualche anno prima, con Cassazione Penale, Sez.IV, 16 gennaio 2015 n.2186, la Corte ha confermato la condanna del datore di lavoro di una impresa edile per omicidio colposo ai danni del lavoratore B.M.
Anche in questo caso, tra i vari addebiti mossi all’imputato, vi era anche quello di aver “adibito e, comunque, consentito che il dipendente B.M. fosse adibito all’esecuzione di lavori in altezza senza tenere conto del suo stato di salute di soggetto diabetico inidoneo a lavori in altezza, nonostante l’inidoneità a dette mansioni e l’espresso divieto in tal senso formulati dal medico competente.”
Nel merito, era stato accertato che “il lavoratore non poteva essere adibito a lavori in altezza in quanto affetto da diabete mellito; l’imputato aveva ricevuto raccomandazioni in tal senso dal medico dell’impresa sin dal 2004, posto che la malattia da cui il lavoratore era affetto può comportare una perdita di conoscenza e, conseguentemente, una perdita di equilibrio qualora chi ne sia affetto si trovi ad eseguire il lavoro in altezza e compia, per di più, uno sforzo in tale situazione”.
E ciò era in effetti accaduto, in quanto “il giorno dell’infortunio il lavoratore stava eseguendo il montaggio dei morsetti del montacarichi detto a bandiera a circa 4 metri di altezza dal suolo, ponendo in essere uno sforzo di elevazione e di impiego di energia fisica che, a causa del notevole afflusso ematico al cervello, aveva cagionato la perdita di conoscenza e la conseguente caduta nel vuoto, provocandone il decesso.”
Fonte: puntosicuro.it