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16 Giugno 2023

INFORTUNI SUL LAVORO, DEIDDA: “E’ UNA STRAGE SILENZIOSA. LA CULTURA DELLA SICUREZZA? SIAMO ALL’ANNO ZERO”

In quanti casi è il caso, la fatalità, a determinare un infortunio sul luogo di lavoro? Se l’è chiesto più volte nel corso della sua lunga carriera di magistrato Beniamino Deidda, che sabato scorso (10 giugno) all’Agorà ha condiviso con il pubblico lucchese dati e riflessioni sulle morti bianche nell’incontro Cambia prospettiva, scegli la sicurezza! organizzato dall’ex consigliere comunale Roberto Guidotti in collaborazione con il gruppo consiliare del Partito democratico.

La risposta offerta dalla diretta esperienza di Deidda è agghiacciante: in nessun caso. “La fatalità è la cultura della sicurezza di coloro che se ne approfittano”, ha detto senza giri di parole. Componente del comitato direttivo della scuola superiore della magistratura, fin dal 1979 Deidda si è occupato dei rischi sui luoghi di lavoro, di infortuni e di malattie professionali; ha inoltre condotto inchieste che hanno inciso sull’opinione pubblica, come quella sulla circolazione di treni coibentati con amianto, sul caso Unabomber o sull’inquinamento dell’Arno nel territorio fiorentino.

Prima di ogni analisi, è opportuno avere chiari i numeri più aggiornati. L’ingegnera chimica ed ex ispettrice del lavoro Alessia Angelini ha presentato una sintesi dei dati nazionali Inail del 2022. Sono stati 697.773 gli infortuni sul luogo di lavoro; di questi, 1090 sono stati mortali. Nel 30 per cento di questi casi, a morire sono state persone – 330, per l’esattezza – che si stavano recando al lavoro o che stavano rientrando a casa. Muoiono soprattutto gli uomini, con una percentuale di 88 punti. Il 20 per cento delle vittime sui luoghi di lavoro in Italia, inoltre, non ha cittadinanza europea. Non si muore nelle grandi aziende, ma nelle piccole e micro imprese che non riescono a investire in formazione e sicurezza: l’82 per cento degli infortuni mortali, nel 2022, è avvenuto in realtà con meno di quindici dipendenti. Il settore più colpito è l’agricoltura, con ben 158 persone morte schiacciate dal proprio trattore lo scorso anno.

Un capitolo a parte lo meritano i dati sulle malattie professionali, causate dall’esposizione lavorativa prolungata a fattori di rischio: sono circa un decimo degli infortuni, ma causano un numero superiore di decessi sul lungo periodo. Nel 2022 sono stati registrati 60.774 casi. Si tratta di patologie osteo-muscolari, come le artrosi, di malattie del tessuto connettivo o del sistema nervoso, di ipoacusie, di malattie dell’apparato respiratorio e di tumori. Tra gli agenti cancerogeni più comuni con i quali le persone entrano in contatto mentre svolgono il proprio lavoro c’è l’amianto: in Italia muoiono così, all’incirca, 1200 persone l’anno. Un numero che supera persino quello degli infortuni mortali. E poi ci sono la silice, alla quale sono esposti soprattutto i cavatori e i lavoratori dell’edilizia, gli idrocarburi, le polveri del legno e del cuoio, che causano tumori nasosinusali che deturpano il volto e rendono molto complesse e dolorose le interazioni sociali di chi si ammala. Una beffa ulteriore, come se non fosse sufficiente una diagnosi che equivale a una condanna a morte. L’impatto delle malattie professionali sulle famiglie e sulla comunità di riferimento è prolungato e costoso. Spesso si ammala la persona che traina economicamente il proprio nucleo, il costo delle cure per il sistema sanitario nazionale è alto, così come quello per la dovuta indennità.

Se la normativa italiana in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro si è perfezionata nel tempo, tanto da essere considerata una delle più efficaci perché supera la visione del datore di lavoro come debitore di sicurezza a vantaggio di un sistema che rende i lavoratori soggetti attivi della sicurezza, a mancare ancora oggi sono formazione e informazione. “La cultura della sicurezza – ha detto Deidda – si impara da bambini, ma l’Italia in questo è ancora all’anno zero. Eppure la scuola dovrebbe chiedersi, prima di tutto, che tipo di essere umano vuole contribuire a crescere. Ecco, porsi questa domanda non può prescindere dal coltivare consapevolezza del valore della vita, dei rischi per sé stessi e per gli altri. Proteggersi non è un’ideologia con la quale essere in accordo o disaccordo ma un sano stile di vita”.

Numeri alla mano, in 10 anni sono morte in Italia 13mila persone per incidenti sui luoghi di lavoro. “È una strage che non fa notizia, se non in pochi casi eclatanti, sebbene il numero delle vittime sia lo stesso dei morti nella guerra del Kosovo. C’è un silenzio mediatico pesante che circonda i lavoratori che perdono la vita. Nei primi 9 mesi del 2022 – ha argomentato Beniamino Deidda – le notizie di infortunio sul lavoro nei principali tg nazionali sono state in tutto solo 32. Una presenza bassissima, inferiore all’1 per cento, che non rispecchia l’alta incidenza dei casi. Eppure sarebbe proprio la corretta informazione l’arma migliore per accrescere i livelli di coscienza e acuire la sensibilità delle persone”.

Che l’opinione pubblica sia mediamente poco interessata al problema lo dimostrano anche i risultati dei sondaggi sulle ragioni che determinano paura e inquietudine nella vita di tutti i giorni. “Al primo posto – ha spiegato Deidda – c’è la criminalità, al secondo la disoccupazione, al terzo i virus, al quarto la presenza di persone immigrate, e via dicendo: certo è che nelle prime venticinque posizioni non c’è posto per la paura degli infortuni sui luoghi di lavoro. Le morti bianche sono avvolte da una spirale di diffusa insensibilità sociale alimentata dall’indifferenza dei media”.

“Gli organi di vigilanza di Asl e ispettorato del lavoro hanno visitato solo il 5 per cento delle aziende. Questo significa – ha sottolineato Deidda – che il 95 per cento delle attività non ha mai ricevuto un solo controllo. Non si tratta di negligenza ma di organici inferiori alle necessità e di mancato investimento, quindi, in sicurezza. Infine è necessario riconoscere che il sistema delle sanzioni penali non funziona. Ogni anno si svolgono circa 25mila processi per infortuni gravi: un numero esiguo rispetto ai 70mila casi rilevati. Perché circa 50mila persone che hanno vissuto un grave infortunio sul lavoro rinuncia ad avere giustizia? Non facilitano i tempi lunghi delle sentenze, che arrivano spesso dopo la prescrizione del reato. Pochi casi vanno a giudizio, pochissimi arrivano alla condanna”.