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21 Ottobre 2022

QUANDO UN NUOVO APPROCCIO ALLA SICUREZZA?

In questo contributo si vuole provare a condensare e riproporre metodologie e strumenti per raggiungere l’obiettivo citato.

Essenziale è mettere subito in chiaro che un’azienda che abbia un minimo di struttura deve fissare i propri obiettivi sia nell’area della prevenzione dei rischi tecnologici che in quella della prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Il problema della tutela dell’integrità psicofisica non è un problema da affrontare “ex post” ma “ex ante“.

Farlo “ex ante” vuol dire prendere in considerazione tutte le variabili che lo possono, anche potenzialmente, influenzare. Pertanto, va cambiato completamente l’approccio al problema che essendo fortemente interdisciplinare necessita assolutamente di competenze variegate in grado di padroneggiare le tante varabili che l’influenzano così da fornire una visione ben diversa dall’attuale ed individuare le aree-problema su cui intervenire. Invece, in Italia, abbiamo affrontato il problema principalmente in un’ottica giuridica lasciando definire le strategie d’intervento per il miglioramento della situazione a soggetti le cui competenze esperienziali sono maturate esclusivamente nella trattazione del problema “ex post”.

Competenza che, per intervenire “ex ante“, serve poco se non a nulla.

I conseguenti effetti, diretti ed indiretti, di tale approccio sulla situazione italiana li conosciamo tutti:

  • norme nebulose spesso inapplicabili;
  • orientamenti giurisprudenziali ondivaghi;
  • recepimento delle direttive europee in modo confusionario e, in alcuni casi, non rispettando i contenuti minimi delle stesse con conseguente “reprimenda” della Corte di Giustizia UE;
  • estensori delle norme che, nell’ambito specifico del settore su cui sono chiamati a normare, hanno la stessa competenza di una nutria riguardo la sicurezza stradale;
  • profeti dell’integralismo repressivo il cui unico obiettivo è solo quello di mantenere alto il livello di preoccupazione per poter spacciare in giro le loro partecipazioni a seminari, convegni, ecc., ovviamente ben retribuiti;
  • adorazione di personaggi che, per il loro ruolo istituzionale, sono divenuti nell’immaginario degli addetti ai lavori strenui paladini di un bene costituzionalmente tutelato ma che invece hanno solo speculato per anni sulle disgrazie altrui per proprio professionale tornaconto;
  • proliferazione di “prime donne” che sfruttano il ruolo istituzionale ricoperto;
  • dichiarazioni di facciata non appena si verificano eventi che impattano emozionalmente sulla pubblica opinione (infortuni mortali plurimi oppure occorsi a giovani che si affacciavano al mondo del lavoro);
  • confusione applicativa imperante tra gli addetti ai lavori;
  • interpretazioni fantasiose da parte degli enti di vigilanza e variabili come le condizioni climatiche sulla cima dell’Everest;
  • rappresentanti ai massimi livelli delle istituzioni che, ad ogni grave evento ripetono la solita litania (più controlli, più formazione e più sanzioni) quale soluzione al problema ma con la recente aggiunta dell’ultimo tormentone e cioè “obiettivo zero infortuni” dimostrando così di non saper distinguere una “visione” da un “obiettivo”;
  • proliferazione dei “cartai” con effetto devastante sulla Foresta Amazzonica a causa della conseguente deforestazione;
  • possibilità, praticamente per chiunque, di ergersi a “formatore per la sicurezza” grazie anche alle maglie extralarge del D. I. 6/3/2013 con conseguente bassa qualità del servizio offerto;
  • nascita di una miriade di corsifici e visitifici in grado di sfornare attestati formativi e giudizi d’idoneità “un tanto al chilo”;
  • iniziative ed interventi presentati come la “soluzione finale” per il problema sicurezza sul lavoro ma che, in realtà, sono proposte datate ben ri-confezionate ed i cui promotori rappresentano professionalmente il “nulla vestito di niente”;
  • diffusione epidemica di iniziative di marketing emozionale della sicurezza, tramite spettacoli, adunate di massa, ecc., con impatto zero sulla sicurezza sul campo;
  • progressivo scadimento della qualità delle iniziative fieristiche e convegnistiche ormai ridottesi a vetrina di venditori di servizi, materiali e prodotti e spesso animate da speaker/relatori di cui non si ricorda alcun contributo di rilievo per l’attività degli addetti ai lavori;
  • proliferazione di pseudo enti bilaterali vari che, in concreto, rappresentano gli interessi di coloro che li hanno costituiti;
  • nascita di associazioni professionali come funghi dopo la pioggia a settembre, visto il loro principale business che è quello dei corsi di formazione;
  • moltiplicazione degli esperti e ricercatori da scrivania, imbucati in qualunque gruppo di lavoro, commissione, ecc. sotto l’egida della propria istituzione pubblica, che si ergono a dispensatori del sapere specifico ma che mai hanno visto “dal di dentro” un’azienda;
  • incapacità di comprendere che la formazione alla sicurezza, i controlli e le sanzioni sono assolutamente inefficaci se non accompagnati da altre iniziative che incidano sui modelli decisionali e comportamentali delle organizzazioni;
  • uso inflazionato della frase “manca la cultura della sicurezza”, in quanto buona in occasione di ogni evento infortunistico, senza che nessuno ne spieghi il significato;
  • ecc., ecc..

Insomma, diciamolo chiaro e tondo, in Italia non c’è e non c’è mai stata, una vera ed efficace strategia per la riduzione del fenomeno: tante chiacchiere ma nessun fatto concreto se non le solite citate litanie ripetute come un mantra ad ogni occasione.

Comunque, ad evidenziare i problemi, più o meno conosciuti, siamo bravi tutti.
Per evitare di essere tacciati di qualunquismo e, soprattutto, per onestà intellettuale e professionale vanno anche proposte delle soluzioni.

Pertanto, cominciamo con proporre quelle che possono essere portate avanti dalle aziende con un minimo di struttura e di organizzazione.

Partiamo dalla cima della piramide aziendale.

vertici aziendali o “posizioni apicali” devono, in primis, dare la giusta evidenza all’importanza del contributo del personale alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro creando le condizioni organizzative e tecniche in grado di permetterne il raggiungimento e il mantenimento del tempo di un suo adeguato livello.

Importante è anche la chiara identificazione dei soggetti a cui, all’interno dell’organizzazione, sono assegnati i poteri e le conseguenti responsabilità.

Inoltre, è indispensabile che i vertici aziendali chiariscano che le competenze, in tema di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, non sono circoscritte agli specialisti ma sono diffuse tra tutti gli attori e, pertanto, è fondamentale che tutti si sentano coinvolti e diano il proprio contributo.

Riguardo la politica aziendale per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, un’organizzazione realmente attenta e concreta e che non si nasconde dietro le N certificazioni di sistema, deve operare sia veicolando, dal vertice verso il basso, contenuti riguardanti l’impegno, gli obiettivi e le risorse necessarie che, dal basso verso l’alto, creando un canale informativo sempre aperto e senza filtri attraverso il quale pervengono le informazioni dalla base quali, ad esempio, le disfunzioni organizzative percepite, le contraddizioni procedurali, le eventuali difficoltà nell’applicazione delle “regole”, le segnalazione di comportamenti e situazioni di rischio, ecc.

Come già detto prima, si parla di mancanza di “Cultura della Sicurezza” ogni qualvolta avviene un grave infortunio. I soggetti che maggiormente utilizzano tale termine sono i nostri politici (senza distinzione di colore alcuno), i rappresentanti delle Parti Sociali e quelli di varie istituzioni statali o parastatali. Nessuno di questi, però, ne dà una definizione o, al massimo, rappresentano la mancanza della “Cultura della Sicurezza” come la mancata conoscenza delle specifiche norme di legge e regolamentari.

La cultura della sicurezza di un’organizzazione non è la conoscenza e l’applicazione delle norme e delle regole vigenti o, almeno, non è solo questa.

La vera e propria “Cultura della Sicurezza”, invece, è il prodotto dei valori, degli atteggiamenti, della consapevolezza, delle abilità e dei modelli di comportamento individuali e di gruppo che determinano l’impegno nella gestione della salute e della sicurezza integrando tale prodotto nel rapporto tra l’organizzazione aziendale e gli individui che ne fanno parte.

Pertanto, la “Cultura della Sicurezza” non può essere sviluppata solo avendo come fondamenta una buona organizzazione e dei processi di comunicazione e interazione efficaci tra tutti gli attori coinvolti.

Serve anche altro.

Questo “altro”, però, è spesso trascurato o relegato in una posizione di secondo piano di quella che è la strategia adottata per lo sviluppo della “Cultura della Sicurezza”.

Quello che manca è l’attenzione, da parte dei vertici aziendali e delle sottostanti posizioni manageriali, alla costante adozione di comportamenti coerenti con l’obiettivo che si vuole raggiungere.

In altre parole, i processi di ripartizione delle risorse, la presa di decisioni, l’ascolto riguardo le richieste provenienti dal basso, ecc., devono essere assolutamente convergenti e coerenti con la politica aziendale dichiarata.

Ovviamente, senza scomodare Cazamian ed i suoi studi degli anni ’60 del secolo scorso sul conflitto tra l’obiettivo sicurezza e gli altri obiettivi d’impresa, va ricordato che i citati processi non divengono convergenti per “grazia ricevuta”, ma solo se l’azienda s’impegna in tal senso sia per quanto riguarda la dichiarata politica che per l’esempio che le posizioni apicali devono dare al personale durante le attività aziendali.

In caso contrario, e questo ce lo ricorda Festinger con la sua teoria sulla dissonanza cognitiva elaborata alla fine degli anni ’60, la dissonanza tra le enunciazioni formali e i comportamenti dei soggetti apicali messi in atto ed osservati dagli altri attori, creerebbe i presupposti per il passaggio di un messaggio dirompente in grado di sgretolare la credibilità della politica aziendale per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

Ecco, quindi, la necessità di ricordare l’importanza della leadership dei manager aziendali per quanto riguarda lo specifico contributo da offrire all’organizzazione.

Pur se in un precedente contributo ( La leadership del manager per la tutela della sicurezza sul lavoro) si era parlato della leadership dei manager per la tutela della sicurezza sul lavoro, è opportuno ribadire cosa, in concreto, la caratterizza.

Innanzitutto, i manager devono avere una visione della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro coerente con la politica aziendale.

Essenziale è anche la capacità di saper negoziare con il vertice aziendale per ottenere le risorse necessarie per l’esecuzione in sicurezza delle attività di cui sono responsabili.

Devono essere vettori per la diffusione delle “regole” controllandone l’applicazione nonché “animatori” delle discussioni riguardanti le modalità di definizione e messa in atto delle stesse, la definizione degli obiettivi e la gestione dei conflitti.

Rientra nel ruolo di manager anche la promozione di programmi formativi “tailor made” per il proprio personale nonché l’analisi e la valorizzazione delle informazioni derivanti dal monitoraggio dei near miss e degli infortuni nonché lo sviluppo delle competenze del personale nel riconoscere l’importanza degli eventi sentinella.

Essenziale è l’integrazione delle attività per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro in tutte le attività aziendali favorendo il coinvolgimento di tutti gli attori nella ricerca, analisi e proposta di interventi migliorativi.

Un buon manager è quello che segnala ai vertici aziendali le eventuali debolezze riguardanti la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, evitando di farle lievitare fino ad un loro possibile tragico epilogo.

I manager sono i primi a dover dare l’esempio dando evidenza con continuità del rispetto delle regole esistenti e condivise sia in condizioni ordinarie che in quelle straordinarie e d’emergenza ed essendo disponibili ad una loro rivisitazione nel caso in cui le condizioni contestuali lo richiedessero.

Importante è anche far sentire la propria “vicinanza” agli operatori sul campo dimostrando empatia riguardo le problematiche operative, favorendo la discussione in modo da far scaturire proposte migliorative da parte del personale da portare sul tavolo dei vertici aziendali e non limitandosi alle sole attività di controllo richieste dal ruolo di manager.

Il manager deve essere attento, oltre alla gestione delle risorse materiali e finanziarie, anche alle risorse umane con particolare attenzione al loro stato di salute, al livello di competenze ed al loro sviluppo.

Quando il proprio personale propone e mette in atto iniziative e buone prassi per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, il manager deve riconoscerle dandone evidenza in azienda.

Dopo aver parlato della leadership dei manager, non possiamo dimenticarci certo dei lavoratori e dei loro rappresentanti.

In sintesi, possiamo ricordare l’estrema importanza dei lavoratori e dei loro rappresentanti riguardo:

  • il feedback che possono fornire all’azienda sia nell’operatività giornaliera che in caso di near miss o infortuni;
  • l’apporto nella definizione di regole condivise scaturenti anche dal sapere operatorio maturato nell’espletamento delle varie mansioni;
  • il contributo valutativo riguardo i cambiamenti tecnici e organizzativi con il loro impatto sulla tutela della salute e sicurezza;
  • le proposte migliorative da portare all’attenzione dell’azienda.

Un’altra riflessione in questo contributo non può che occuparsi della gestione del personale.

Va premesso che in Italia continuiamo ancora a scontare un approccio in cui la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro è sempre finita per essere ingrediente all’interno del pentolone delle Relazioni Industriali ed oggetto di negoziazione tra le Parti Sociali.

Del resto, non è raro ancora oggi trovare la funzione sicurezza sul lavoro riportare al direttore del personale nonostante da 14 anni il RSPP debba “rispondere” al datore di lavoro.

Comunque, al di là di tutto ciò, in aziende attente alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, una direzione del personale deve:

  • fungere, quantomeno, da catalizzatore riguardo l’attivazione dei programmi per l’acquisizione e il miglioramento delle competenze;
  • effettuare periodicamente l’analisi del clima aziendale (compresi conflitti, tensioni, criticità, ecc.);
  • rilevare i segnali che denotano l’insorgere di possibili problemi;
  • proporre ed attuare interventi organizzativi condivisi per il miglioramento del livello di sicurezza;
  • supportare il management operativo nella gestione del proprio personale;
  • favorire il dialogo tra azienda e rappresentanze sindacali e lo sviluppo partecipato della cultura della sicurezza.

Infine, non va dimenticata anche un’altra importante funzione e cioè quella di coordinarsi con il medico competente e il RSPP ai fini della gestione delle problematiche legate allo stato di salute del personale riguardo le eventuali inidoneità e la compatibilità con le mansioni svolte.

Fonte: PUNTO SICURO